Campobasso, agosto 1966.
Una stanza, piccola, un letto, con sopra, coricata, una chitarra.
Ero uscito dalla stanza dove c'erano tutti, intorno a un tavolo, ridendo di qualche battuta, cosa fanno le vacche nel fine settimana? Il vacchend... forse avevamo pranzato insieme, io non avevo voglia di ridere, ero stato strappato al mio mondo e nessuno mi aveva avvertito o spiegato perché.
La chitarra ed io eravamo soli nella stanza. La guardavo.
Avevo visto poco tempo prima a cinema Il dottor Živago e ricordavo il tema di Lara, mi era rimasta impressa la musica e la malinconia, un dolore che sentivo e che ancora non riuscivo ad esprimere nemmeno col pianto, ero atterrito, sembrava che la speranza di una vita gioiosa fosse di nuovo cancellata, come se non la meritassi, come se mi fossi ingiustamente illuso di non essere più quel burattino di legno; che bugie avrò mai detto?
Mi avvicino alla chitarra, sei corde, pizzicandole suonano e, nella piccola stanza solitaria, quel suono si spande e ne delimita lo spazio.
La chitarra ha dei tasti, a che servono? mi chiedo.
Mi ricordo del tema di Lara e provo a cercarlo sulla prima corda...
La corda a vuoto suona la prima nota del tema.
Premendo un tasto, il terzo, riconosco la seconda nota; mi affanno a cercare la terza e dopo un po' la trovo ma non può bastare, ecco la quarta...
Ed ecco il tema, l'ho trovato, come una porta che si apre, una via d'uscita; io sono quel tema e per un attimo ritrovo lì il mio universo, gli sguardi felici della mia infanzia perduta.
Passo il pomeriggio a risuonare il tema di Lara su tutte le corde e mi chiedo come è possibile avere lo stesso tema con suoni diversi; ovviamente non conoscevo il concetto di tonalità ma mi ponevo il problema e, con questo primo dubbio, cominciavo a ragionare da musicista, anche se, ancora oggi, mi chiedo cosa voglia dire davvero essere un musicista.
Nelle settimane che seguirono non ho pensato ad altro che alla chitarra; in fondo al precipizio dove ero stato gettato (capirete perché adoperò un termine così forte) avevo trovato una porta che si apriva e volevo attraversarla.
Appena vedevo uno con una chitarra in mano mi avvicinavo e lo tempestavo di domande! una sera un complessino suonava in un locale, forse un ampio ristorante e, nella pausa, ho chiesto al chitarrista COME FACEVA a fare quegli accordi. Forse mi ha lasciato provare a suonare, nella sala, col pubblico distratto e diradato.
Abbiamo lasciato Campobasso ai primi di settembre, era passato solo un mese dal mio arrivo.
Poco tempo prima, a Reggio, avevo ricevuto una lettera da un fratello che mi ero completamente dimenticato di avere. Un invito a passare una vacanza da loro, cioè da lui e dalla madre che sapevo di avere ma con cui non avevo mai vissuto né desiderato vivere.
Ero felice a Reggio, coi nonni, con zio Vanni; i giorni, i mesi e gli anni scorrevano sereni e cominciavo a crescere.
La musica era sempre presente in casa, zio Vanni ascoltava e collezionava dischi dei più grandi interpreti; a volte lo vedevo dirigere il giradischi, come fosse la sua orchestra. Oggi mi avrebbe fatto pensare al gesto di Abbado, che lui del resto ha sempre molto amato.
Quell'estate papà era tornato di nuovo da Milano ma con una nuova compagna che non conoscevo.
Lessi la lettera nel corridoio all'ingresso e la scena che ne seguì rivelò tutto il magma di tensioni irrisolte dal quale fino ad allora ero stato sottratto dall'amore dei nonni.
Nulla mi incoraggiava ad accettare l'invito e non potevo rendermi conto della coincidenza dell'arrivo di questa lettera con la comparsa della nuova e giovane compagna.
Ma la curiosità di vedere un fratello, più piccolo di me di due anni, era troppo grande, e poi in fondo era solo una vacanza...
Non fu così, non era una vacanza. Appena arrivato, quella donna che non conoscevo ma che sapevo essere mia madre mi disse che sarei rimasto a vivere lì, con loro, per sempre.
Me lo disse al mattino al mio primo risveglio in quella casa, ed io piansi. Il giorno dopo, sempre al risveglio, mi chiese a bruciapelo: "chi ha ragione, io o tua nonna?" non credo ci fosse stato prima alcun riferimento concreto per questa domanda così precisa, ma in ogni caso risposi: "mia nonna". Questa volta fu lei a piangere e uscì di stanza. Non abbiamo più parlato e così, in un'atmosfera oppressiva di conflitto latente, distacco e incomunicabilità, cominciava la mia nuova vita.
La mia nuova vita consisteva, in quel mese di agosto 1966, nel giocare nei giardini comunali con mio fratello, che però prendevo in giro, ed in qualche gita sul Biferno (Ade percorreva in auto le tortuose discese che portavano al fiume guidando in folle la sua Prinz). Lì io ed Emilio pretendevamo di pescare ma prendevamo solo larve. Una guardia si avvicinò e ci disse gentilmente che non potevamo pescare, specie così!
Lasciata Campobasso, ci mettemmo in viaggio con la Prinz piena zeppa di tutti gli orpelli di un trasloco improvvisato e ci dirigemmo, o piuttosto mi portarono con loro, in Puglia.
La strada era disseminata di nomi dal duplice prefisso, quasi a sottolineare lo squarcio che si era creato tra la vita di prima e la bi-vita che mi aspettava: Bi-tonto, Bi-tetto, Bi-tritto, Bi-sceglie... ed io ero intontito, sotto un nuovo tetto, contrito e non avevo scelta.
Alla fine arrivammo a Castellana Grotte dove mia madre doveva prendere servizio a scuola per via di un trasferimento appena richiesto.
Siamo rimasti lì in una pensione per un altro mese, non pensavo più alla chitarra e al tema di Lara.
Ai primi di ottobre eravamo a Bari, in un appartamento ammobiliato in via Matteotti.
Quei primi mesi a Bari furono uno sconvolgimento di tutto quello che avevo vissuto, un vero shock emotivo. La madre di mio fratello ( biologicamente anche la mia), senza alcuna spiegazione, cominciò a convivere con un collega più anziano, forse la ragione del suo trasferimento in Puglia.
Ero appena stato sottratto alla mia famiglia a Reggio ed avevo un'educazione ed un modello di vita senz'altro moderno per i tempi, mio nonno era una persona aperta e senza pregiudizi, mio zio viveva già in una realtà cosmopolita ricca di interessi culturali. La situazione in cui ero stato catapultato però era fuori dai parametri di un bambino che stava appena compiendo 13 anni e tutto ciò senza una spiegazione, senza un'introduzione ai cambiamenti.
Era mia madre? Dovevo essere geloso di quest'uomo che si è inserito in questa casa barese un paio di mesi dopo il mio “sequestro”? Di mia nonna ero stato sempre molto geloso; una volta, bimbo minuscolo, l'accompagnai alle terme e, quando si chiuse in una cabina con vasca, cominciai a dar pugni alla porta finché non dovette farmi entrare.
Ma questa donna era un'estranea per me e forse inconsciamente mi chiedevo: "perché mi ha portato via dai miei nonni con cui ero felice se in realtà vuole solo vivere la sua vita?"
Una dose di orgoglio in tutto ciò non mi è mai mancata ma non sapevo se e perché avrei o non avrei dovuto reagire, forse per esserci?
Mi tornò in mente la chitarra, mentre cercavo le note del tema di Lara io ero lì, in quella stanza semplice e spoglia, e tutto era lì con me in quel tratto di tempo. La musica è così, ci può far vivere infinite volte le stesse emozioni e gli stessi pensieri, anche se sono state messe in musica secoli prima, Bach continua a vivere in noi ogni volta che lo suoniamo o lo ascoltiamo e mentre suoniamo o ascoltiamo noi siamo lui, noi siamo Bach con tutto il suo mondo interiore, la sua densità di pensiero e le sue passioni.
Alla fine di quell'estate compii i miei tredici anni, per ora non parlerò delle emozioni causate da questo sequestro, richiederà un capitolo a parte. So solo che l'incontro con quella chitarra distesa su un lettino di Campobasso mi aveva rivelato qualcosa di magico che non avrei mai immaginato prima, nemmeno felice dai miei nonni, nemmeno ascoltando tutta la meravigliosa musica che mi faceva ascoltare zio Vanni. Fu un colpo di fulmine, la volevo, volevo possederla, suonarla.
Cominciai a mettere da parte per un anno quei pochi spiccioli della “paghetta” che ricevevo dalla madre biologica, alla fine mi diede anche quel poco che mancava per fare l'acquisto. Mi recai da Ricordi in via Sparano e scelsi una chitarra economica, credo una Eko.
Non ricordo cosa tentassi di suonare allora, probabilmente degli accordi di qualche canzone, mi piacevano Luigi Tenco e Fabrizio de André, la chitarra era una mania collettiva, la città era piena di giovani con la chitarra in spalla, ci incontravamo con gli amici nei giardinetti vicino casa scambiandoci accordi, consigli, ascoltandoci a volte con una ingenua e spontanea ammirazione, senza invidie, e ci scrutavamo per carpire qualche nuovo trucco, qualche nuova posizione.
Era un periodo durissimo per me, mi sentivo estraneo a tutto, privo dell'unità familiare che mi avevano dato i nonni con lo zio, privo di qualsiasi scambio mentale ed affettivo con una donna, la mia biomadre, che non conoscevo affatto.
Dopo pochi mesi in cui cercavo come tutti di accompagnarmi con questo strumento, ci fu l'incontro con un vicino che suonava in modo diverso, arpeggiando con le dita della mano destra (quante persone hanno vissuto la stessa cosa...) e indovinate cosa suonava? Un brano dalla colonna sonora di un famoso film del 1952 di René Clément, un film struggente, tenerissimo, ma che nessuno di noi aveva mai visto, dal titolo velato di un'amara ironia che lasciava invece intendere tutt'altro, “Jeux interdits”.
Generazioni intere di chitarristi sono stati attratti da quel semplice arpeggio in mi minore, e pochi sapevano chi fosse l'interprete, quel Narciso Yepes che suonava su una chitarra a dieci corde, poco apprezzato d'altronde dal gigante Segovia, suo contemporaneo e conterraneo.
Quell'incontro cambiò la mia vita, cominciai a studiare prima da solo il solfeggio, poi scoprìi che al piano di sotto viveva un'anziana pianista, vedova del celebre violoncellista Masotti e cominciai a seguire con lei delle lezioni teoriche di musica. Nel frattempo trovai lo spartito di quel “Jeux interdits” che conteneva anche gli altri brani, di Robert de Visée, della colonna sonora del film e cominciai a studiarli, da solo, decifrando con fatica ma con grande ostinazione e riuscii a suonarli tutti, per la gioia dei miei compagni di liceo, in primis Claudio Ruffini, il mio primo vero fan...